SPAZI E SAPERI PER CORPI LIBERI

Nel 2023 cosa vuol dire femminismo?
Sempre più persone si definiscono femministe, la parola “patriarcato” è entrata nel linguaggio comune, l’uso di un linguaggio gender neutral si diffonde, abbiamo a capo del governo e del principale partito di opposizione due donne, ma il patriarcato non è stato abbattuto perchè singole donne, bianche, cis, ricche hanno avuto successo, la strada è ancora lunga
Crediamo sia il momento di fare alcune precisazioni, provare a spiegarvi, in maniera non esaustiva, cosa sia il femminismo per noi, per fare il resto del viaggio assieme.

In primis: è transfemminismo.
Non è il nostro femminismo se non è inclusivo, collettivo, antirazzista, anticapitalista, antifascista e se lo scopo finale non è una società della cura, in cui sia la persona al centro e non il profitto.

Viviamo in un’epoca complessa, in cui c’è un incredibile avanzamento di presa di coscienza e liberazione di una parte della società, soprattutto sui temi civili, identitari, ma si vede incombere una perdita di diritti.
Mentre sempre più persone si liberano dalle convenzioni di genere, sempre più persone si identificano e fanno coming out come non binary e trans, cresce il numero di persone socializzate donne che perseguono carriere considerate “maschili”, nello stesso tempo viene sempre più ostacolato il diritto all’aborto, i diritti del lavoro vengono erosi, le frontiere serrate tra lacrime di coccodrillo, le persone nate in Italia da genitori stranieri ancora non sono riconosciute come italiane, solo per citare alcune delle ingiustizie.

Il femminismo, le sue frasi, vengono presi, svuotati di significato e svenduti da persone che vedono nel movimento solo uno strumento per raggiungere quel successo personale che il patriarcato gli ha precluso, sfondano il vetro di cristallo senza curarsi delle altre donne marginalizzate che dovranno poi raccoglierne i cocci.

Non è transfemminismo se non saremo liberз tuttз

OLTRE IL GENERE
Per un transfemminismo inclusivo

Riconoscere che esistono categorie convenzionali, oltre a quelle create dal binarismo di genere, che regolamentano l’accesso a diritti e dignità è la base per creare una società del futuro dove non ci siano soggetti oppressi.
Per questo distinguiamo il transfemminismo da altre forme escludenti che prendono in prestito questo nome, ma continuano sistematicamente a discriminare larga parte delle persone. 
Che si tratti del femminismo radicale, che esclude e discrimina le persone trans, o di quello liberal, che ignora le condizioni di base da cui ogni soggetto parte per instillare, invece, l’idea che delle ricche donne bianche cis di potere che replicano gli stessi schemi di potere che ricchi uomini bianchi cis hanno tracciato prima di loro, possano rappresentare una vittoria collettiva.
Il transfemminismo non può essere ridotto a una battaglia personale, vive solo nella dimensione collettiva per questo deve essere inclusivo e declinato rispetto ad ogni corpo, realtà e soggetto esistente. 
Lo stesso uso di forme neutre o di ə e з all’interno di questo testo e della nostra comunicazione, pur non essendo una soluzione definitiva, segnala un problema di fondo rispetto alla scarsa inclusività della lingua con cui ci esprimiamo.

DATA GAP
Sapere per agire

Per garantire un’uguaglianza sociale, politica ed economica sono necessari i dati.
Non si possono, infatti, attuare politiche adeguate e mirate per ridurre la disparità di genere senza dati e metodi di raccolta liberi da stereotipi.
Eppure, ad esempio, le indagini sulla povertà vengono spesso condotte a livello familiare, facendo sì che ci sia una percezione falsa e ridotta della realtà.
Se si guarda invece il fenomeno dei femminicidi, nel 2020, soltanto in Italia, se ne sono registrati 120, quasi uno ogni tre giorni, eppure sul sito dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE) si legge che non è possibile fare un’analisi e assegnare un punteggio per misurare la violenza di genere per mancanza di dati adeguati e comparabili.

Uno dei campi in cui emerge di più ed è più letale la mancanza di dati di genere è la medicina.
Le donne sono le maggiori consumatrici di farmaci, ma questi non sono spesso testati su di loro, provocando un maggior numero di effetti avversi e più gravi rispetto agli uomini.
Non si hanno inoltre a disposizione dati affidabili su come trattare la maggior parte delle patologie nelle donne, poiché i test clinici sono svolti su campioni prevalentemente maschili, e qualora nel campione rientrino le donne, su quest’ultime il test viene somministrato all’inizio della fase follicolare del ciclo, quando, dunque, i livelli ormonali sono bassi, cioè nella fase in cui sono più “simili agli uomini”.
Ancora, il personale medico, per esempio, spesso non è in grado di diagnosticare in tempo un infarto in una donna; sempre per mancanza di dati sul corpo femminile. Nei libri di medicina, infatti, tutt’oggi, c’è una scarsa rappresentazione dei corpi delle donne e vengono perpetrate emozioni, ruoli e impostazioni stereotipate di genere.
Persino le illustrazioni degli organi sessuali femminili, come il clitoride o le labbra, sono rappresentate in modo irrealistico, secondo immaginari stereotipati e disegnati in modo omogeneo e unificato.
Per le patologie che riguardano solo le donne, poi, questo gap diventa una voragine.
Nonostante il 90% delle donne in età fertile soffra di sindrome premestruale, e il 45-95% di dismenorrea, in entrambi i casi non è garantita l’efficacia dei farmaci consigliati.
Nel caso dell’endometriosi non si hanno addirittura certezze né sulla percentuale delle donne affette, né sulle cause, i sintomi, le diagnosi e le cure. Non si sono raccolti abbastanza dati neanche per fare chiarezza sulla definizione di questa patologia, come dimostrano le discordanze tra il Ministero della Salute e le nuove linee guida della società Europea di Riproduzione Umana ed Embriologia, ESHERE.

Questi sono solo alcuni degli esempi che dimostrano il vuoto di dati di genere.

Abbiamo perciò bisogno di dati e, come dice Lauren Klein, coautrice del libro Data Feminism: “Il fatto che vengano raccolti dei dati su un certo argomento, o non raccolti è [solo] una questione di potere”.

SCUOLE E UNIVERSITÀ
Liberare il sapere per liberare i corpi  

Gli attuali spazi della formazione giocano un ruolo chiave nel continuare a legittimare e replicare un modello culturale patriarcale, escludente, performativo e violento. 
Scuola e Università determinano la mancanza di possibilità di vedere garantite risposte ai nostri bisogni, tanto in termini di cura, quanto di emancipazione culturale; a causa della mancata presa di responsabilità e della mancanza di volontà da parte delle nostre istituzioni di contemplare i bisogni che vadano oltre l’uomo maschio bianco etero cis. 
Il Transfemminismo è una pratica e una visione del mondo in grado di ribaltare completamente l’approccio escludente (classista, razzista, maschilista, abilista) della scuola e dell’università di oggi, poiché mette al centro la persona, le relazioni, i corpi e soprattutto pratiche che possano creare una comunità che sia in grado di dare forma ad un cambiamento radicale dell’attuale contesto scolastico e formativo. 

Partendo dai luoghi della formazione si possono creare spazi di contrasto alla violenza patriarcale, per una trasformazione radicale della società in chiave transfemminista e una riappropriazione dei saperi che storicamente ci è stata privata. 
Rivendichiamo programmi ministeriali adeguati e aggiornati, che attualmente si attestano esclusivamente su un registro di universalismo tutto maschile. 

È inaccettabile che vengano perpetrate narrazioni che propongono un’idea fuorviante e discriminatoria del mondo, che parte dalla focalizzazione dell’uomo bianco – colonialista – benestante – capitalista e che si autolegittima come unico punto di vista valido. 
Riconosciamo come unico metodo utile per leggere la realtà la lente dell’intersezionalità, rintracciando una matrice comune che sostiene le diverse categorie di oppressione sociale e che le fa agire interconnesse. 
Vogliamo decolonizzare i saperi e rivendichiamo la valenza storica delle soggettività discriminate. Vogliamo studiare da testi che non rafforzino gli stereotipi di genere, e rifiutiamo l’impostazione patriarcale della didattica. 

La Scuola e l’Università devono essere un luogo che non reiteri le dinamiche meritocratico-punitive di un mercato accelerato, ma un luogo che educhi alla decostruzione e alla critica, che si faccia carico della formazione degli individui tramite modelli educativi che non lascino indietro nessunə e che vertano alla costruzione di una nuova società davvero inclusiva. 

Ad oggi sono ancora normalizzate pratiche di violenza come molestie o cat calling e per realizzare una società responsabile e non violenta, pretendiamo una educazione sessuale, alla affettività e al consenso per riconoscere e contrastare le forme di violenza maschile e transomofobica. 
In una ricerca svolta in Italia mediante un questionario anonimo rivolto a più di 600 studentesse universitarie è stato rilevato come una ragazza su tre abbia sentito la pressione “a essere carina” all’esame per ottenere un voto migliore; il 5% riporta allusioni di carattere sessuale in sede di esame e il 3% afferma di aver subito un ricatto sessuale da parte di un docente. In Italia, un’indagine tra 3.064 studentesse dell’Università di Bologna, riporta tra le vittime di molestie, stalking e violenza sessuale nell’arco della vita rispettivamente il 21%, il 9,7% e il 6,3% di casi avvenuti in luoghi universitari. 
È necessario implementare questionari e formazioni per prevenire ed intervenire contro la violenza di genere che quotidianamente viene perpetrata nei luoghi del sapere. Vogliamo Centri Anti Violenza e Consultori in tutti gli atenei, per garantire spazi sicuri e attraversabili per chiunque.

Vogliamo assorbenti e profilattici gratuiti in tutte le scuole ed Università, perché la salute non è un lusso o un privilegio. 

Pretendiamo carriere alias in scuole e università veramente accessibili, non escludenti e non classiste. Nel sostegno all’autodeterminazione di chi studia sarà necessario improntare un lavoro di attivazione che preveda maggiori tutele (eliminando la richiesta di certificazione di disforia di genere) per le soggettività attualmente discriminate, riconoscendo la legittimità dell’identità di ognunə. 
Gli spazi del sapere non possono più legittimare la violenza eterocispatriarcale, non possono più essere spazio di violenza istituzionale praticata tramite l’apparato amministrativo burocratico. 
Il disagio derivato dal non vedere riconosciuto il proprio genere ha spesso effetti gravosi sul benessere psicologico dellз studentз trans di cui l’università deve farsi carico con ogni mezzo a sua disposizione. La salute mentale non è una responsabilità individuale. 

Vogliamo una scuola laica, pubblica e gratuita che sia davvero per tuttз, vogliamo un sapere libero dalla violenza patriarcale e abilista: pretendiamo una educazione inclusiva e transfemminista. Vogliamo Scuole ed Università sicure, per essere liberз di autodeterminarci e avere gli strumenti del cambiamento. 

DIRITTO ALLA SALUTE

La violenza ospedaliera presente nel nostro Paese si evidenzia innanzitutto nella difficile attuazione delle pratiche abortive, complicate ancora oggi dall’alto tasso di obiettorз di coscienza presenti in Italia. Questa difficoltà può portare la persona gestante a dover affrontare un vero viaggio per ottenere ciò che è un suo diritto.
Continuiamo ad assistere al disincentivo, quando non alla criminalizzazione, dell’aborto da parte dei movimenti pro-life attraverso campagne pubblicitarie e accordi con aziende ospedaliere per la sepoltura dei prodotti abortivi, che prevede, senza alcun consenso della persona gestante, il trasporto del feto in un cimitero e la sepoltura con nome e cognome della stessa scritto su una croce.
A questa situazione, già critica, si aggiunge anche la linea tenuta dall’attuale governo dove la ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Roccella ha dichiarato fin da subito come l’aborto fosse “il lato oscuro della maternità”.
La legge 194, del 1978, che tutela, in Italia, il diritto all’aborto, in questa situazione mostra tutti i propri limiti, tanto che quando l’attuale governo parla di “applicazione integrale della legge” si riferisce a quelle parti della legge che permettono la presenza all’interno di ospedali e consultori di organizzazioni pro vita e anti abortiste. Per questo non vogliamo limitarci alla difesa della situazione legislativa attuale, ma pretendere molto di più.
Soprattutto perché per “tutelare la maternità”, come si vorrebbe, non serve limitare il diritto all’aborto: servono politiche del lavoro che consentano alle persone di non dover scegliere tra prole e lavoro, congedi di maternità e paternità paritari e remunerati, sussidi e sostegni alle famiglie, scuole per l’infanzia, assieme a politiche ambientali e sociali che diano la speranza di farlɜ crescere in un mondo migliore. Fermo restando che portare avanti una gravidanza deve essere una scelta.

Un altro lato della violenza ospedaliera, emerso mediaticamente negli scorsi mesi, ulteriore evidenza del fatto che le dichiarazioni sulle tutele antiabortiste siano unicamente di facciata, è quello che vede, anche a causa dei tagli a cui è andata incontro la sanità pubblica, il parziale abbandono delle persone gestanti anche a poche ore dal loro parto. Questa pratica, aggravata negli ultimi anni dalla situazione pandemica che limitava al minimo le visite, non solo rinchiude la persona partoriente fin dal principio nel suo essere il principale veicolo di cura, ma la rende spesso protagonista di episodi traumatici.

Riteniamo inoltre, come dichiara anche l’OMS, che pure la salute mentale sia parte integrante del benessere di una persona. Questo aspetto della sanità è invece quasi totalmente relegato al privato, con dei prezzi inaccessibili.
Il benessere psicologico è un diritto e una questione politica la sua garanzia, è fortemente influenzato dal sistema economico e dall’accesso al sistema di welfare pubblico, andando ancora una volta a gravare maggiormente sulle persone già oppresse su altri fronti. Vediamo inoltre il benessere psicologico come strumento di emancipazione, autodeterminazione e cambiamento sano della realtà circostante, non strumento per aumentare la performance dell’individuo.

LAVORO

Il mondo lavoro è un mondo dove le disparità di genere si manifestano nei modi più evidenti. A partire dall’infanzia alle bambine continuano a venir presentati modelli stereotipati, limitando la loro immaginazione e le loro possibilità di costruire un futuro a loro misura. 
Affrontando poi gli studi, le ragazze continuano a dover combattere stereotipi sessisti nel mondo della formazione, per poi arrivare nel mondo del lavoro e, a fronte di pari o anche maggiori titoli e abilità, trovarsi relegate a posizioni meno retribuite, con meno responsabilità. 
Tutto questo diventa uno strumento di violenza sistemica contro le donne. Il mancato accesso al reddito o l’accesso a redditi notevolmente più bassi ci rende a rischio di diventare vittima di violenza economica, una forma di violenza di cui è difficile avere idea della dimensione reale. Per le donne inoltre è molto più complicata la gestione del rapporto tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo: in una famiglia è molto spesso la donna a sacrificare il proprio lavoro produttivo per dedicarsi al lavoro di cura proprio perché meno retribuita nel lavoro produttivo, ma al contempo spesso si trova a esser meno retribuita sul lavoro visto il tempo che deve dedicare al lavoro di cura. 

È necessario quindi combattere le discriminazioni nel mondo del lavoro affrontando il problema alla radice: dal part-time involontario al gender pay gap, dal riconoscimento del lavoro riproduttivo al giusto salario per chi svolge lavoro di cura fuori dal proprio nucleo familiare. 

Perché anche il lavoro è una questione di genere.

VIOLENZA PATRIARCALE 

La violenza di genere è un problema che strutturalmente permea tutta la società. Questo fenomeno è vittima di una serie di stereotipi che pretendono di relegarlo a contesti svantaggiati, stranieri o limitati. La realtà dei fatti è che si tratta di un problema esteso, trasversale e diversificato. Non esiste nessun comportamento provocatorio che giustifichi un atto violento. La violenza maschile sulle donne non è unicamente quella fisica, presente parzialmente nel racconto mediatico, consiste in un insieme di strategie di controllo e limitazione della libertà che possono esprimersi in vari modi (violenza economica, psicologica).

La pandemia è stata un acceleratore della violenza nelle nostre vite, che ancora riconosciamo come strutturale in ogni ambito, luogo ed esperienza.
Nonostante il lieve calo della percentuale di femminicidi, rispetto al 2021, il totale dei reati contro le donne è in crescita costante e il maggior luogo di pericolo resta quello domestico e famigliare
La violenza di genere è diffusa e coinvolge un terzo della popolazione femminile tra i 14 e i 70 anni di età: tuttavia, Il 28% delle donne non parla con nessuno della violenza subita e solo il 34% delle donne che subisce violenza pensa di essere stata vittima di un reato. Questi dati rappresentano uno scenario drammatico e delineano un contesto culturale in cui noi, in primis, sentiamo l’esigenza di intervenire. La necessità di continuare diffondere gli strumenti e le pratiche per prevenire, riconoscere ed eliminare la violenza maschile è evidente.

La violenza, infatti, si manifesta non solo tra le mura di casa o per strada, ma anche nella narrazione e nella rappresentazione mediatica della stessa: ancora adesso, il maltrattamento familiare (come forma di violenza di genere) è sottorappresentato, nonostante l’incidenza del fenomeno sia in assoluto la maggiore. 
Esistono diversi tipi di approcci che pretendono di giustificare la violenza: quello psico-patologico (il raptus); quello biologizzante (la natura aggressiva maschile); quello culturalizzante (è straniero). 
È a partire dalla rappresentazione sociale della violenza che si arriva a normalizzare la stessa: condanniamo fermamente ogni tipo di narrazione tossica che relega e designa i colpevoli come orchi o mostri. 
La violenza viene storicamente accettata e minimizzata e ancora ci scontriamo con la retorica sessista, lgbtqia*fobica e di giustificazione della violenza. 

Nel rapporto con le forze dell’ordine spesso i problemi sono sminuiti, le denunce non accolte. La convenzione di Istanbul, oltre ad essere il primo strumento che definisce il genere come costruzione sociale e non biologica, è anche il primo documento che parla di violenza sulle donne, ma in realtà è uno strumento quasi del tutto sconosciuto. 
Inoltre, è necessario lavorare affinchè il femminicidio venga implementato e integrato all’intero sistema giuridico e legislativo, per cui non debba più esistere la possibilità di rito abbreviato, ma esserci un riconoscimento legale del femminicidio e dell’omicidio a sfondo lgbtqia*fobico. 

Pretendiamo risorse e finanziamenti adeguati ai CAV e che essi abbiano presidi all’interno di tutti i luoghi della formazione; soprattutto vogliamo consultori pubblici e CAV in grado di decodificare e accogliere la domanda di soggettività lgbtqia* e non binarie. Le pratiche che vogliamo attuare per intervenire e combattere questo fenomeno, si slegano dalla singola ricorrenza dell’otto marzo, ma mirano ad un percorso generale per una rivoluzione culturale e di cura. 

Pretendiamo di vivere gli spazi in modo sicuro, riappropriandoci delle città, denunciando sistematicamente i luoghi nei quali la violenza si esprime e facendo rete con altre realtà che si occupano di fuoriuscita dalla violenza, attuando anche delle formazioni condivise. 
Dobbiamo pretendere un monitoraggio costante della violenza di genere, ma che sia parallelamente costruito insieme ad un percorso di fuoriuscita accessibile per tuttз, attraverso una mappatura dei Cav e consultori. 

La violenza di genere è un problema sociale, strutturale, mediatico e patriarcale, essere trasnfemministз significa unirsi nella lotta e ribaltare un sistema che legittima e minimizza qualsiasi forma di violenza.