“Tutto quello che altrove viene censurato qui si fa! […] Le femmine sono soltanto carne da fottere e stuprare”
Le parole sono di Danonymous, uno dei cinquantamila utenti di quei ventuno canali telegram in cui donne di ogni età sono vittime, spesso inconsapevoli, di violenza.
L’esistenza di gruppi come Canile 2.0 viene denunciata da Wired in un’inchiesta del 23 gennaio 2019. Da quel momento canali simili vengono chiusi a causa delle segnalazioni e sistematicamente riaperti dagli utenti, come torna a testimoniare un’altra inchiesta di Wired più di un anno dopo.
Le vittime sono un numero incalcolabile di ex fidanzate, compagne, figlie, amiche o conoscenti ma anche ragazze trovate scorrendo un qualsiasi social e le cui foto vengono estratte direttamente dai loro profili privati. I carnefici sono i cinquantamila utenti che le umiliano, denigrano e oggettificano fino a renderle vere e proprie merci, barattando foto con dati personali delle vittime, o vendendole per denaro ad altri utenti.
La creazione e la diffusione non consensuale di immagini intime è una forma di violenza di genere cyber generalmente conosciuta sotto i termini di “revenge porn” o “revenge pornography”. Queste parole, inizialmente impiegate in ambito giornalistico e poi entrate nell’uso quotidiano, hanno creato una narrazione attorno a questa forma di violenza di genere, tale da cristallizzarla a livello concettuale e, di conseguenza, anche normativo.
Concentrandosi sulla narrazione etero-normata della relazione, e sulla finalità vendicativa del poster, pertanto richiedendo la dimostrazione in sede processuale del dolo specifico, ossia della volontà di causare uno stress alla vittima, l’approccio nei confronti di questa violenza diviene quindi estremamente restrittivo, le voci e le esperienze di chi sopravvive a questa sono silenziate.
Per questo le parole, specialmente in diritto, specialmente in ambito di violenza di genere, sono cruciali.
Perché allora il termine revenge porn è da rigettare? Oltre a restringere l’approccio praticabile come detto prima, si focalizza unicamente sulle motivazioni e le gratificazioni del poster, assumendone lo sguardo. Dando così man forte anche a potenziali narrazioni giustificatrici. Evidentemente, il poster ha qualcosa di cui vendicarsi, no?
Inoltre, si inquadra quella che è una violenza a tutti gli effetti come una pornografia, quando di pornografico non c’è nulla. La pornografia è un prodotto artistico consensuale.
Creare o acquisire immagini intime di una donna e diffonderle viralmente senza il suo consenso è violenza. È necessario assumere lo sguardo della vittima-sopravvissuta.
Cosa succede ad una vittima di questo tipo di violenza?
Non sono molti gli studi sugli effetti della diffusione non consensuale di immagini intime sulle vittime-sopravvissute. Secondo uno studio di Samantha Bates, “Revenge Porn and Mental Health: A Qualitative Analysis of the Mental Health Effects of Revenge Porn on Female Survivors”, l’impatto sulla salute emotiva e mentale è devastante, e dimostra notevoli somiglianze con quello dello stupro: disturbo post traumatico da stress, ansia, depressione, insicurezza, diminuzione dell’autostima, perdita del controllo, impairment delle funzioni cognitive, perdita del controllo sul proprio corpo, disperazione, rituali, comportamenti compulsivi, incubi, risvegli notturni, paralisi, inibizione, profonda sfiducia e diffidenza. Meccanismi di difesa comuni sono negazione, evitamento, uso di alcool e droga come anestetici/sedativi o antidepressivi, ricerca di cause giustificatrici di quanto avvenuto… e un profondo senso di vergogna. Ciò che è più traumatico, e uccide, non è nemmeno la violenza in sé, ma la sua banalizzazione, il ‘victim blaming’, lo ‘slut shaming’, la cultura dello stupro, lo sminuirne le conseguenze emotive e materiali. Perché ci sono anche le seconde: cambio di nome, indirizzo fisico o di posta elettronica, recapiti telefonici e/o account social, trasferimenti, licenziamenti, molestie, intrusioni, incolumità fisica in pericolo, ostracismo e isolamento. Spesso fino ad arrivare al suicidio.
Come affrontare collettivamente questa violenza?
Partiamo dalle parole. Un termine evocativo, che assume la prospettiva della vittima-sopravvissuta è “abuso sessuale basato sull’immagine”, proposto dalle accademiche Clare McGlynn e Erika Rackley, che mette questa in violenza in continuità con tutte le altre violenze. Lo spazio cyber, lungi dall’essere quell’Internet utopico sognato alla fine dei ’90, data la sostanziale irresponsabilità de facto degli internet service providers, diventa così prateria sconfinata per la proliferazione di atti e linguaggi misogini e violenti.
L’art. 10 comma 1 della L. 19 Luglio 2019 n. 69, c.d. Codice Rosso, introduce la nuova fattispecie di reato, rubricata “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, ex art. 612ter c.p.
La norma criminalizza, dopo la realizzazione o sottrazione delle immagini o video a contenuto sessualmente esplicito destinati a rimanere privati, l’invio, la consegna, la cessione, la pubblicazione o la diffusione di tali, senza il consenso delle persone rappresentate – salvo che costituisca più grave reato. La norma criminalizza altresì l’invio, la consegna, la cessione, la pubblicazione o la diffusione di chi abbia ricevuto o comunque acquisito tali materiali, al fine di recare nocumento alle persone rappresentate. Le sanzioni per queste condotte sono la reclusione, da 1 a 6 anni, e la multa, da 5.000 a 15.000€.
Sono previste delle aggravanti,
- se il reo è coniuge, anche separato o divorziato, o persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa (aumento della pena)
- se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici (aumento della pena)
- se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza (aumento della pena da un terzo alla metà)
La norma presenta fin troppa vaghezza. Una foto che ritrae un viso è sessualmente esplicita? E una in costume da bagno? Una ragazza che dorme? Perché non è presente un riferimento ai minori? È prioritario che la norma venga rivista e adeguatamente modificata. È prioritario, ma non sufficiente.
I cinquantamila utenti di telegram non sono un prodotto anomalo, una minoranza di disturbati, malati e perversi come sarebbe quasi rassicurante pensare. Spesso sono padri, tutti sono figli e, talvolta, sono amici. Sono il prodotto del patriarcato, un sistema culturale, sociale ed economico che permette e legittima una forma di potere e dominio della mascolinità tossica su tutte le altre soggettività.
Al fine di sradicare un sistema che genera violenza è necessaria un’educazione all’affettività inclusiva, laica, non eteronormata e basata sul consenso così come il finanziamento e il supporto dei Centri Anti Violenza.
Solo attraverso un percorso costruttivo ed educativo, dalle scuole ai posti di lavoro, riusciremo a sconfiggere la violenza di genere in ogni sua forma.
A differenza di quei cinquantamila utenti telegram, di chi minimizza e ridicolizza, di chi si sente estraneo a dinamiche simili ma sghignazza quando ad una ragazza viene chiamata troia, la lotta transfemminista non conosce la codardia del branco.
Saremo insieme per costruire un mondo giusto e inclusivo, per l’autodeterminazione dei corpi e la libertà di essere come vogliamo, con le nostre fragilità, ma sicuramente senza alcun tipo di vergogna.